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1944 “Pippo” volante

Sfollati in un tranquillo posto di campagna

di Mario Orlandi

Fra le tante storie cruente del tempo di guerra, ce n’è anche qualcuna finita bene e, addirittura, qualcuna finita bene e con risvolti comici.

1944. La città era diventata invivibile a causa delle frequenti incursioni aeree alleate e le visite notturne di “Pippo” che toglievano il sonno anche ai più tranquilli. “Sfolliamo” a Gargallo, frazione tranquillissima, dove all’aviazione alleata non verrà mai in mente di sganciare una bomba.

Ci trasferiamo tutti, insieme agli altri residenti della casa di Via Ugo Sbrillanci, le famiglie Lugli, Vellani, Zanoli, Po, Formigoni e Orlandi unite tra loro da vari vincoli di parentela, giusto nel mulino di Gargallo (hai visto mai che il centro di Gargallo fosse troppo affollato?), ospiti del Sig. Malagoli .

La sistemazione è eccellente: dormiamo tutti e quindici in uno stanzone con divisorie improvvisate fatte di teli appesi a fili di ferro. In uno stanzone accanto dorme la famiglia Cavazzoli, che ha un strano ruolo di sfollata solo notturna visto che di giorno deve gestire la bottega di sali e tabacchi nell’angolo tra Via Sbrillanci e Via Nicolò Biondo.

Per procurarsi da mangiare bisogna andare tutti i giorni, per forza, nelle botteghe dei due centri vicini: Gargallo centro o Gargallo Cantone. Cosa vuoi mai, saranno due pedalate all’aria buona della campagna.

Ma sono anni in cui la tranquillità non esiste da nessuna parte, e in nessun momento.

E’durante uno di questi viaggi di approvvigionamento che avviene un fatto drammatico che avrebbe potuto tramutarsi in tragedia per mio padre Gino e il marito di sua cugina Gina, Metrobio Vellani, detto Checco.

Si trovavano all’interno della bottega, quando un automezzo militare si fermò sulla strada antistante. Discesero militari tedeschi e repubblichini gridando a gran voce:”Rastrellamento”.

Tutti gli avventori furono spinti verso l’autocarro sul quale i nostri due eroi videro, sgomenti, altre persone atterrite. I rastrellamenti erano frequenti in quei tempi: quando un militare tedesco o un repubblichino venivano uccisi, o c’era un attentato di qualsiasi tipo, la rappresaglia era immediata e spietata.

Venivano prese persone a caso nella zona dove era avvenuta l’uccisione, caricate su un camion e portate via. La destinazione era sempre ignota. Si poteva finire in un’altra città, alle prigioni e di li al campo di concentramento o al poligono di tiro per la fucilazione.

A questo punto, però, Checco tirò fuori dalla tasca dei pantaloni, sventolandolo sotto il naso dei repubblichini, il suo asso di briscola: la tessera del partito fascista, di fronte alla quale, i rastrellatori non poterono far altro che lasciarlo libero. Mio padre però, non aveva né tessera né altro merito da vantare presso i suoi interlocutori e, ormai, caricato sull’autocarro, si vedeva già avviato verso il più triste destino. Le insistenze di Checco non convincevano i repubblichini.

Ma lui non desistette, anzi sfoderò un altro asso di briscola: il suo discreto tedesco col quale si rivolse direttamente ai militari teutonici e con loro si intrattenne a lungo a farfugliare, finché questi, convinti forse più che dagli argomenti, dal fatto stesso che qualcuno parlasse discretamente la loro lingua, fecero cenno a mio padre di scendere e di andarsene. I repubblichini restarono con le pive nel sacco come i cagnolini di fronte al padrone: “ubi maior minor cessat” avrebbero pensato, se solo avessero saputo un po’ di latino.

Tornarono, i nostri eroi, al mulino, con le facce sbiancate, ma sani e salvi. Dei poveri diavoli sull’autocarro non seppero mai più nulla.

Ma, in quel tranquillissimo posto di campagna, i problemi non venivano solo dai tedeschi e dai repubblichini, venivano, ovviamente, anche dalla parte opposta.

Una notte, saranno state le due o le tre, si sentirono delle urla venire dalla strada sotto le finestre dello stanzone nel quale dormivamo tutti insieme. “Vellani, siamo i partigiani!!! Affacciati alla finestra!!!” Io che ero un bambino dal sonno leggerissimo, mi svegliai per primo gridando:” Babbo, ci sono i carpigiani!!!” “Macché carpigiani, questi sono partigiani…Checco ṡṡd èt” urlò sua moglie Gina affacciandosi lei, alla finestra e apostrofando i partigiani con aggressivo:”Mò ’sa vlii v a st’óra?” “Vellani, venga fuori Vellani..”” Mòcchè Vellani, a gh suun mè ed Vellani, ’sa viì iv?” “ Sappiamo che ha una rivoltella, ci getti giù l’arma e ce ne andiamo”. Risposero questi rabboniti dall’aggressività della signora.

A questo punto l’azione si spostò tutta all’interno dello stanzone dove Gina stava letteralmente aggredendo il marito:” Cuusa gh è…te gh èe ’na rivoltèela? Mò ii t maat o ii t caiòun? Tiira fóora cla rivoltèela…” e qui, quella donna mite e sposa sottomessa che era, si trasformò di botto in un ciclone cominciando a passare dalle parole ai fatti e menando sventole a più non posso sul marito, il quale, muto e disorientato, non accennò minimamente a una difesa. La rivoltella saltò fuori in quattro e quattr’otto e fu gettata in strada da Gina accompagnata da un categorico:” tulìi mò la rivoltèela, e tulìi v d ind i pèe”.

Dalla strada, la sceneggiata non doveva essere sfuggita ai sedicenti partigiani i quali devono immediatamente aver capito quale tipo di belva fosse il fascista padrone della rivoltella.

Dall’italiano, passarono direttamente a un pacato dialettale:”bòona nòot”. E se ne andarono lasciando agli sfollati un sospiro di sollievo. A qualcuno restò un dubbio: come sapevano i partigiani di quella rivoltella che qualcuno aveva affidato a Checco?

A quel punto, dopo tre mesi (Giugno-Settembre), si pensò, che tutto sommato, erano meglio le bombe di città che la “tranquillità” della campagna di Gargallo. Così si tornò a casa e le bombe arrivarono…puntualmente.

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