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52 arcate di portico. A Carpi la gran piazza

di Mario Orlandi

La nostra è una piazza stupenda, una delle più grandi d’Italia. Su di essa si affacciano gli edifici sede del potere religioso, politico, artistico e della vecchia aristocrazia cittadina rappresentati dal duomo, dal municipio, dal teatro e dalle case del portico lungo.

52 arcate sotto le quali hanno passeggiato sicuramente tutti i personaggi illustri della nostra lunga storia le cui teste di marmo ornano le colonne che fanno da ingresso ai giardini pubblici e cioè Bernardino Ramazzini, Galasso Alghisi, Alberto Pio, Traiano Boccalini, Nicolò Biondo, Ugo Da Panico, Guido Fassi, Iacopo Berengario. Insomma, sotto questo portico c’è passata la storia.

E anche la storia dei ragazzi nati in tempo di guerra, quelli che, intorno al 1960 avevano più o meno vent’anni. In quegli anni il portico lungo aveva una valenza speciale, non era cioè, come oggi, un luogo da percorrere distrattamente col viso rivolto verso l’interno alla ricerca di un negozio dove fare compere, era un luogo per fare incontri perché tutta la vita sociale era concentrata in quei duecentocinquanta metri.

Specialmente la domenica mattina dopo la messa di mezzogiorno “fare quattro vasche” era d’obbligo perché poi si incrociavano le ragazze da invitare alle festine del pomeriggio. Festine di cui molti conservano un ricordo struggente perché era durante quei pomeriggi che nascevano gli amori, quando nella sala da pranzo di turno, spostata la tavola in un angolo, ci aspettavano un giradischi e pochi dischi a 78 giri che venivano suonati a turno più e più volte, un po’ di pasticcini e qualche bevanda non alcolica. Festine che cominciavano con la luce del sole al ritmo del rock and roll e finivano al buio coi balli del mattone. E se c’era qualcuno che osava accendere la luce veniva ripreso con cattiveria o “lapidato” sul posto da tutti gli altri. (E quando questo accadeva il rock n’ roll lasciava il posto ai lenti da ballare stretti guancia a guancia).

Sono passati tanti anni da quel tempo ma io continuo a fare ancora le mie quattro vasche anche se ormai, difficilmente incontro qualcuno che conosco e se lo incontro, inevitabilmente, mi fermo a discorrere con lui (o con lei) oltre che degli acciacchi dell’età, di quei meravigliosi tempi passati quando ad ogni bar –il bar Milano, il bar Dorando dove passavamo interi pomeriggi a giocare a bigliardo, il bar Roma- corrispondeva un gruppo di ragazzi affratellati dalla stessa età ma divisi dalla concorrenza per intercettare le ragazze.

Il trascorrere del tempo ci ha separati, chi se n’è andato per sempre e chi non ha più le forze o la voglia di camminare, chi non trova più interessante la nostra piazza che – dicono- è sempre quella.

Fino a non molti anni fa, comunque, facevo le mie vasche essendo sicuro che avrei incontrato sicuramente tre personaggi che facevano quasi parte dell’arredo urbano della piazza ed erano Gianfranco Imbeni seduto a un tavolo del bar Milano, Lamberto Riboldi appoggiato al bancone del Bar Dorando e Arturo Anceschi davanti al suo negozio proprio in angolo con Corso Fanti.

A questo punto penso di essere rimasto l’unico a compiere questo rito e lo faccio con piacere visto che mi riserva sempre una gradevole sensazione imboccare il portico del Grano, e cominciare a vedere, arcata dopo arcata, il municipio, e poi il castello con il torrione degli spagnoli, la torre dell’orologio, l’uccelliera, e infine il duomo che fa da sfondo alla piazza coi suoi colori tipici nostrani del rosso e del giallo. Così, percorro le 52 arcate ammirando la prospettiva che cambia ad ogni passo, e mi fermo a contemplare, per l’ennesima volta, alla catena di Via Paolo Guaitoli, sulla pavimentazione in pietra rosa di Prun l’impronta di quella enorme conchiglia del diametro di un metro vissuta milioni di anni fa. E qui penso spesso a Leopardi e alla sua meravigliosa poesia “L’infinito” –e mi sovvien l’eterno e le morte stagioni….la piccolissima cosa che siamo noi, qui e adesso.

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